LE DEUXIEME ROI, TITÌ

Gioca sempre per il nome scritto davanti alla maglia e loro ti ricorderanno per quello che hai dietro”. La formidabile figura di Thierry Henry può essere riassunta in questa frase, che, come poche altre, fa capire che tipo di calciatore è sempre stato il francese per i tifosi dell’Arsenal (e non solo). Quattro titoli di capocannoniere in Premier League e ben due Scarpe d’oro (prima di Messi e Cristiano Ronaldo, solo lui riuscì a vincerla per due anni consecutivi), due Campionati inglesi, tre Coppe d’Inghilterra e due Community Shield con la maglia dei Gunners, una Ligue 1 e una Supercoppa di Francia con il Monaco, due Campionati spagnoli, una Coppa e una Supercoppa di Spagna, una Champions League, una Supercoppa europea e un Mondiale per club con il Barcellona, oltre ad un Mondiale ed un Europeo nel biennio d’oro (1998-2000) della nazionale francese (di cui è ancora lo storico capocannoniere, con 51 reti realizzate). Questi sono soltanto numeri, che riescono sì a dare un’idea del meraviglioso apporto tecnico sempre fornito dal centravanti gallico, ma che non possono certo essere usati come unico modo per elogiarlo. Henry è sempre stato tanto altro. Henry era potenza, quando decideva di calciare dal nulla, con veemenza, da ogni posizione, come contro il Manchester United. Henry era velocità, quando puntava il suo diretto marcatore nell’uno contro uno. E, quando decideva di farlo, riusciva 9 volte su 10 nel suo intento (come nel 3-0 contro il Tottenham, quando mandò al bar praticamente tutta la difesa avversaria). Henry era furbizia, come quando, nel bel mezzo di una discussione con l’arbitro circa la giusta posizione per battere una punizione, decise di calciarla (e segnarla) senza attendere il fischio del direttore di gara. Henry era precisione chirurgica: gli bastava guardare un angolo del sette per posizionare il pallone laddove nessun portiere ci sarebbe mai potuto arrivare con le mani e nessun altro giocatore con il semplice pensiero (come nello 0-2 contro il Blackburn oppure col destro a giro commentato, con tanto di risata “godereccia”, da uno dei suoi più grandi estimatori, Massimo Marianella). Henry è stato, per distacco, l’acquisto più azzeccato da parte di Wenger (lo stesso allenatore che lo fece esordire con la maglia del Monaco, dopo che Arnold Catalano ne scoprì le innate doti), di sicuro la sua maggiore fonte d’orgoglio da quando siede sulla panchina dell’Arsenal: è a lui che “Titì” deve il cambio di ruolo, da ala (soprattutto nella Juve di Ancelotti, dove fu chiamato, per la cifra record di 11,5 milioni di euro, per sostituire nientepopodimeno che Alessandro Del Piero, non riuscendo, però, ad esprimere quasi mai il suo indubbio ed immenso talento) a centravanti puro, prima al fianco di Bergkamp e poi come unico terminale in quel modulo (4-5-1) in grado di produrre un gioco così spumeggiante da portare i Gunners a giocarsi la Champions League, a Parigi, nel 2006. Quella finale fu la partita che mise in campo coloro i quali erano considerati (e come pensarla diversamente) i due più forti calciatori del momento: Henry e Ronaldinho. Due dei calciatori più influenti del terzo millennio, due leggende estremamente nostalgiche, due fenomeni dalla tecnica sopraffina, che hanno contribuito alla visione del calcio come pura forma d’arte. Henry, dopo aver terminato la sua esperienza all’Arsenal, ha provato il blasone blaugrana e la suggestione americana con i NY Red Bulls, ma il suo cuore biancorosso, pochi anni dopo, gli ha suggerito di tornare a casa, a Londra. Anche se, stavolta, il teatro delle gesta del numero 14 non è stato più il leggendario Highbury, salutato ufficialmente il 7 maggio del 2006 (Arsenal-Wigan 4-2), con la tripletta di Henry, la qualificazione in Champions League a scapito degli Spurs e l’indimenticabile bacio al prato verde da parte dell’asso francese. Ed è in quel bacio che si può racchiudere l’amore profondo, mai perduto, di Titì col suo Arsenal. E col suo tempio. E con tutti i fans che, a dispetto di ogni fede calcistica, si sono innamorati dell’arte del calcio grazie alle perle del secondo numero 14 più amato della storia del pallone.

Angelo Abbruzzese