GARY SHAW: Quel maledetto ultimo sogno.

“Chi dice che i sogni non si realizzano ?

Quando sono entrato nelle giovanili dell’Aston Villa avevo un sogno: esordire in prima squadra per il Club che ho sempre amato e per il quale facevo il tifo fin da bambino.

Il 1° settembre del 1979, a 18 anni, questo sogno si è realizzato.

In una partita di campionato contro l’Everton.

Avevo un altro sogno.

Riuscire a giocare almeno una volta a fianco dell’idolo assoluto della mia adolescenza, il mio punto di riferimento quando giocavo nelle giovanili e lo vedevo allenarsi e giocare al Villa Park al Sabato: Brian Little.

Neppure due mesi dopo, il 13 ottobre, abbiamo fatto coppia d’attacco in un match al Villa Park contro il WBA.

Poi quando ho cominciato verso fine stagione a giocare stabilmente  in prima squadra insieme a giocatori del valore di grande talento come Gordon Cowans, Allan Evans e Trevor Morley ho iniziato a coltivarne un altro di sogni: vincere il campionato inglese di First Division con il mio amato Club.

… Alla faccia del sogno !

L’Aston Villa che non vince un campionato da più di 70 anni e che nelle ultime 40 stagioni non è arrivata una sola volta nelle prime 3 !

Solo che il 2 maggio del 1981 l’Aston Villa si è laureato Campione d’Inghilterra !

Credete che io abbia smesso di sognare ?

Niente affatto !

Vincere il campionato vuol dire da sempre partecipare alla Coppa dei Campioni, ovvero la manifestazione per Club più importante del mondo.

E io ho sognato di vincerla.

Beh, con squadre come Juventus, Liverpool, Stella Rossa, Bayern Monaco, Celtic o Real Sociedad non esattamente una passeggiata !

Invece nella finale di Rotterdam del 26 maggio di quest’anno abbiamo sconfitto per 1 a 0 i favoritissimi tedeschi del Bayern Monaco e così siamo diventati CAMPIONI D’EUROPA.

A questo punto di sogni me ne manca uno solo fra tutti quelli “sognati”.

E’ quello che fai fin da bambino appena inizi a tirare due calci ad un pallone e a guardare qualche partita in tv: quello di giocare per la Nazionale del tuo paese.

Io ho già giocato 7 volte per l’Under 21 inglese e in questi giorni mi hanno inserito nella lista dei 40 giocatori da cui usciranno i 22 che andranno ai Mondiali di Spagna che inizieranno fra poche settimane.

Insomma, ci sono ad un passo … anche se la concorrenza è fortissima.

Però non mollo di certo … in fondo ho solo 21 anni e di sogni da avverare mi manca solo quello.

Chi dice che i sogni non si realizzano ?

 

L’ultimo sogno, quello definitivo e forse più importante di tutti, per Gary Shaw non si realizzerà mai.

Nell’estate del 1982, nonostante la fresca vittoria in Coppa dei Campioni con il suo Aston Villa che lo vide tra i protagonisti assoluti Gary Shaw non riuscì ad entrare nei 22 di Ron Greenwood nella spedizione inglese per i mondiali di Spagna.

L’anno successivo arrivò anche la vittoria nella Supercoppa Europea, vinta nel gennaio del 1983 contro il Barcellona di Diego Maradona e Bernd Schuster.

Proprio al termine della partita di ritorno in cui Gary fu determinante (suo il primo gol che portò l’incontro ai supplementari e poi vinto dai Villans per 3 reti a 0) accadde qualcosa che forse vale più di un trofeo: Diego Armando Maradona, assente nei due incontri per problemi di salute, chiede al suo agente di recarsi negli spogliatoi dell’Aston Villa per farsi consegnare “la maglia numero 8 di quel biondino fenomenale”.

Queste le parole del “pibe de oro”.

Tre anni meravigliosi per Gary.

Un Campionato, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Europea a cui si vanno aggiungere riconoscimenti personali quali Miglior Giovane Giocatore dell’anno del campionato inglese nella stagione 1980-81 e addirittura l’anno successivo, quello della vittoria in Coppa dei Campioni, quello di Miglior Giovane Giocatore Europeo (il famoso “Guerin Bravo”).

Sembra tutto perfetto.

La Nazionale maggiore, l’ultimo sogno da realizzare è sempre lì, ad un passo.

Siamo nel settembre del 1983.

L’Aston Villa è sempre nei quartieri alti della classifica anche se un po’ dello smalto delle stagioni precedenti sembra ormai perduto.

I Villans giocano in trasferta a Nottingham.

Di fronte il Forest di Brian Clough che è invece la pallida controfigura dello squadrone che vinse la Coppa dei Campioni nel 1979 e nel 1980.

Gary Shaw riceve palla, finta con il corpo di andare a sinistra e poi sterza verso destra, in uno dei suoi classici movimenti.

Da dietro arriva un difensore del Nottingham, fuori tempo e “spiazzato” dal movimento di Shaw.

Gli entra sul piede d’appoggio.

Gary va a terra. Ian Bowyer, il forte centrocampista del Forest, lo aiuta a rimettersi in piedi.

In quel momento, sono parole di Gary “ho sentito distintamente un crack, come qualcosa che si spezzava dentro il mio ginocchio”.

Una prima operazione e poi il recupero.

Forse affrettato.

Il ginocchio non regge e continua a gonfiarsi.

Altra operazione per “pulirlo” dai frammenti di cartilagine.

Un nuovo recupero.

Gary torna in campo.

Ma è evidente a tutti che non è più lui.

La sua agilità nel breve, i suoi repentini cambi di direzione, quella rapidità che unita alla incredibile capacità di “leggere” le giocate in anticipo sugli avversari non sono quelli di prima.

La tecnica è sempre cristallina, il suo opportunismo sotto porta inalterato … ma è lampante che nel suo gioco si è perso qualcosa.

La squadra intanto si sta sfaldando. Se ne vanno in tanti di quell’11 meraviglioso che nell’anno del trionfo in campionato giocò praticamente tutte le partite … con solo 3 giocatori in più utilizzati in ben 42 partite di campionato.

Swain, Mortimer, Mc Naught e soprattutto Gordon Cowans, quello capace di “mettere in porta” Gary con un passaggio filtrante o un lancio di 40 metri, hanno lasciato il Club.

Gary rimane.

Lui ama il club, non si immagina di giocare da nessuna altra parte.

L’Aston Villa lo aspetta e continua a sperare che torni quello di una volta.

In fondo quando il suo ginocchio va in pezzi ha solo 22 anni … c’è tempo e nessuno vuole rinunciare a provarci.

Ma il tempo passa e Gary trova i suoi spazi in prima squadra sempre più limitati.

Quel “qualcosa” che faceva la differenza, che lo aveva catapultato giovanissimo ai vertici del calcio inglese ed europeo, che avrebbe fatto di lui la bandiera dei Villans per almeno una decade si è perduto per sempre.

Lui, nato a Kingshurst, ad un tiro di schioppo dal Villa Park e unico giocatore nato nella zona di Birmingham in quell’Aston Villa capace in un anno solare di arrivare prima sul tetto d’Inghilterra e poi su quello d’Europa.

Della sua partnership con Peter Withe, il possente centravanti dei Villans di quegli anni, della loro intesa quasi telepatica, si parla ancora oggi tra i tifosi negli “anta” dei Villans.

Lo stesso Peter Withe ammette che nessuno tra i suoi tanti partner d’attacco si è mai anche solo avvicinato a Gary per qualità, tecnica e intelligenza calcistica.

Gary rimarrà all’Aston Villa fino al 1988, tra speranze di un completo recupero e disillusioni di una realtà purtroppo molto diversa.

Inizierà a vagabondare tra squadre minori inglesi (Walsall e Shrewsbury) e campionati di secondo (o terzo) piano come quello danese o austriaco chiudendo addirittura la sua carriera ad Hong Kong.

In poco più di 3 stagioni Gary Shaw ha ottenuto quello che moltissimi calciatori firmerebbero per raggiungere in una carriera intera.

Nessuno può sapere cosa avrebbe potuto fare davvero Gary Shaw senza quel dannato infortunio … ma una certezza l’abbiamo; che anche quel maledetto ultimo sogno Gary Shaw lo avrebbe raggiunto.

REMO GANDOLFI

 

Come sempre la parte iniziale raccontata in prima persona è frutto della “fantasia” del sottoscritto anche se basata su fatti reali, interviste e informazioni raccolte per poter raccontare questo piccolo tributo all’ennesimo grande e sfortunato campione.

La tragedia di Monaco!

busby babes

Perché rischiare il decollo? A Monaco di Baviera nevica fitto, il bianco fagocita tutto, il gelo morde tutto. Invece nella cabina di comando i piloti azzardano ancora la manovra. Qualcuno ha fatto pressioni, qualcuno spinge per partire lo stesso, qualcuno dello staff dello United non si rende conto del pericolo. Alle porte per loro c’era solo il Wolverhampton, per una sfida cruciale nella corsa al titolo inglese. E allora occorreva far rientrare la squadra il prima possibile, per prepararsi al meglio alla partita. Il 6 febbraio 1958, alle ore 15:04: il volo Be 609 della British European Airways, un modello Elizabethan rinominato “Lord Burleigh” tenta di decollare per la terza volta. La pista è coperta di neve, alla stazione di controllo scuotono la testa, hanno sconsigliato la partenza, hanno detto che conviene aspettare. Niente da fare. Il pilota Steve Rayment e il capitano James Thain, un uomo che aveva al suo attivo moltissime ore di volo come ufficiale della Royal Air Force, ci provano. Si fidano della loro esperienza, nonostante l’evidente difficoltà. E poi, cazzo, quelli vogliono andarsene, non sanno cosa significhi pilotare un aereo, ma vogliono andarsene. Neve o non neve. L’apparecchio lentamente comincia a rullare. Infila la pista, porta il motore al massimo, inizia a muoversi. Si alza a fatica, i motori non raggiungono la potenza necessaria. È colpa delle cattive condizioni atmosferiche, è colpa della pista innevata, è colpa della pessima visibilità, è colpa di una sciocca frenesia. Quando l’apparecchio giunge a non più di dieci metri dal suolo, perde quota, piomba verso terra. Il carrello non ancora completamente rientrato, urta una macchia d’alberi, il velivolo scoperchia una casa e termina la sua follia sul fianco di un capannone adibito al deposito di olio e carburanti. E’ un attimo. Rapido e maledetto. Immediatamente si sprigionano fiamme altissime, l’aereo diventa una carcassa di fuoco, le ali si staccano facendo esplodere uno dei motori. La fusoliera resta integra e molti membri dell’equipaggio riescono a uscire fuori e provare fra i frantumi a soccorrere gli altri meno fortunati. Poi arrivano i primi mezzi di soccorso, le prime sirene, i primi urli strazianti nel fumo nero sotto un cielo marmoreo. L’aereo proveniva da Belgrado. Era stato affittato dal Manchester United come “charter” per trasportare la squadra campione d’Inghilterra a giocare la partita valevole per l’andata dei quarti di finale della Coppa dei Campioni contro la Stella Rossa. L’incontro era finito 3-3 e gli inglesi avevano ottime chances di guadagnare le semifinali. Le autorità tedesche, dopo una breve e superficiale investigazione, attribuirono la causa dell’incidente alla presenza di grandi quantità di ghiaccio sulle ali, e naturalmente ai piloti responsabili della fatale decisione. Ci vollero circa dieci anni prima che le reali dinamiche dell’incidente fossero accertate. Come per la maggior parte dei velivoli “High Wing”, la fusoliera era posizionata molto in basso, ed il fatto che la neve sciolta venisse lanciata in aria dalle ruote rendeva il mezzo particolarmente vulnerabile. In quel periodo non si conosceva ancora molto riguardo a questo genere di problematiche. La pista di Riem (il nome dell’aeroporto tedesco) non era ben drenata e vi si potevano formare larghe pozze che ovviamente con la bassa temperatura diventavano strati gelati lunghi e critici. I rilievi sul momento furono poi ostacolati da quattro pollici di neve caduti fra il momento dello schianto e l’arrivo della squadra investigativa. Sette giocatori morirono sul colpo: il capitano Roger Byrne, titolare in nazionale da quattro anni, il centravanti Tommy Taylor che stava progettando il matrimonio con la sua fidanzata e quella mattina al telefono le aveva detto: “Prepara una bella birra che sto arrivando amore mio…” . Persero la vita anche il giovanissimo mediano Eddie Colman, vent’anni e già tra i più rinomati d’Europa nel suo ruolo, l’ala sinistra David Pegg, Billy Whelan, eccezionale attaccante irlandese che pare morì con la fede cattolica nel cuore se c’è chi giura che prima del cedimento racconta di averlo sentito gridare «Dio sono pronto!». A Dublino per i suoi funerali si presentarono in 20mila. Stessa sorte per il gigantesco stopper Mark Jones; lui lasciò a casa ad aspettarlo invano una giovane moglie e un bimbo piccolo. Un’assenza che distrusse il cuore dell’amato Rick, un labrador nero che si lasciò morire qualche giorno dopo la fine prematura del suo padrone. E poi il terzino di riserva Geoff Bent, uno che diceva sempre di essere allergico ai viaggi aerei: “Mi fanno sanguinare il naso”. Alla fine si era piegato alla volontà del “mister” ed era partito per la sua ultima trasferta. Oltre ai sopracitati giocatori, morirono l’assistente Tom Curry, il preparatore fisico Bert Whalley ed il segretario Walter Crickmer, nonché i giornalisti Archie Ledbrooke del “Daily Mirror” e Frank Swift, l’ex grande portiere diventato cronista dopo aver abbandonato l’attività agonistica. Un ottavo membro del gruppo si arrese dopo due settimane di agonia. Il suo nome evoca da solo la leggenda: Duncan Edwards. Ventun anni, eppure già titolare fisso in Nazionale e con un futuro radioso davanti. “The Tank” andò a segnare reti in Paradiso. Poco prima di salire a bordo trovò il tempo di spedire un telegramma alla sua padrona di casa per avvertirla che forse per problemi atmosferici avrebbe trascorso la notte in Germania. Il telegramma arrivò a destinazione alle diciassette di quel pomeriggio quando Edwards, sdraiato su un letto d’ospedale a Monaco, affrontava la sua partita contro la morte. Un ragazzo d’acciaio, capace di reggere anche quattro incontri a settimana, non voleva mollare. Con le costole frantumate, un polmone perforato e la gamba destra spezzata, Duncan sibilò al dottore: “Quante possibilità ho di poter giocare la settimana prossima?”. Molly, la sua fidanzata gli tenne forte la mano fino alla fine, e rimase così, a vegliarlo, fino alla notte del venerdì quando si spense per sempre. Fu una seconda morte per Manchester. La cittadina di Dudley, nel Midlyne dove Edwards era nato, si strinse tutta intorno a quel figlio adorato al quale dedicò una statua, e sulle vetrate della chiesa di St Francis fu dipinto il suo ritratto con indosso le maglie del Manchester United e quella dei tre Leoni. Furono otto, invece, i giornalisti che persero la vita: Alf Clarke, Tom Jackson, Don Davies, George Fellows, Archie Ledbrook, Eric Thompson, Henry Rose e Frank Swift, che era un ex giocatore del Manchester City. Morirono anche il capitano dell’aereo, Kenneth Rayment, l’amico di Sir Matt Busby, Willie Satinoff, l’agente di viaggio Bela Miklos ed il membro dell’equipaggio Tom Cable. In totale i morti furono 21. Un incidente che non soltanto portò via al calcio dei possibili campioni, ma anche, e soprattutto, spense i sogni di ragazzi con un’intera vita davanti. Uno dei ragazzi più promettenti e talentuosi, Bobby Charlton, rimediò alcuni giorni di ospedale ma riuscì a cavarsela. Quanto al tecnico Matt Busby, il creatore di quella giovane e quasi imbattibile squadra alla quale aveva veramente regalato il suo marchio di fabbrica, tanto da essere ribattezzati come i “Busby Babes”, rimase gravemente ferito, e a lungo rimase sospeso tra la vita e la morte: solo dopo qualche settimana fu dichiarato fuori pericolo. Commovente il suo discorso alla radio trasmesso anche dagli altoparlanti dell’Old Trafford in un freddo sabato pomeriggio, durante il quale rassicurava tutti sulle proprie condizioni promettendo di tornare presto. Brian Glanville, storico commentatore inglese, così scriveva pochi giorni dopo l’accaduto, il 13 febbraio 1958: “Perché mai, in nome della ragione e del buon senso, doveva il Manchester United caricare tutta la sua squadra su un aeroplano invece di noleggiarne due? Il terribile disastro di Superga, nove anni fa, scosse il mondo e il Torino non si è più ripreso. In Inghilterra, l’Arsenal reagì rifiutandosi di viaggiare per aria, a meno che, i suoi giocatori potessero usare due aeroplani. Come società, il Manchester United merita sincera simpatia, ma i suoi dirigenti devono essere aspramente censurati per la pazzia che è costata a loro, ed al calcio britannico, un prezzo così caro”. A ogni modo la costernazione e la commozione, in Inghilterra e nel mondo intero, fu grandissima. A distanza di quasi dieci anni da Superga un’altra squadra di calcio periva in un disastro aereo. Il Manchester United nell’immediato dopoguerra militava in seconda divisione, privo di fondi adeguati lottava per non retrocedere. Addirittura in quel periodo mancavano anche le divise per scendere in campo, e perfino per gli allenamenti era necessario il razionamento delle maglie. Lo stadio di Old Trafford non era disponibile, colpito gravemente dalle bombe dell’aviazione tedesca, al punto che lo United dovette chiedere ospitalità agli “odiati” cugini del Manchester City che concessero il loro impianto dietro lauto pagamento di un affitto stagionale fino all’ agosto del 1949, quando, i “Red Devils” finalmente si poterono riappropriare della loro casa. Da quel momento in poi l’Old Trafford avrebbe alzato il sipario su quello che ormai è diventato «The Theatre of Dreams». Nella ricerca di giocatori di valore la società decise di puntare su proprio su Matt Busby. Sir Alexander Matthew Busby, detto Matt era uno scozzese nato il 26 maggio del 1909 ad Orbiston, in una casa di campagna con due stanze, nel Lanarkshire e crebbe nel vicino paese di Bellshill, pugno di case a nord di Motherwell. Suo padre lavorava in miniera e, costretto poi ad arruolarsi per la Prima Guerra Mondiale, rimase ucciso dalla fanteria tedesca ad Arras quando Matt non aveva ancora compiuto diciassette anni e poco prima della sua partenza per gli Stati Uniti dove nel frattempo era già emigrata la madre. Ma il destino comincia già a bussare forte alla sua porta e Matt viene chiamato per un provino dal Manchester City. Un provino che gli cambia la vita. In precedenza, Matt aveva subito due rifiuti da entrambi i big club di Glasgow, restando confinato a giocare per la squadra dilettantistica del Denny Hibs. Matt beve ottimo scotch e ascolta Louis Armstrong, in campo si fa valere come centrocampista di rottura e debutta con la maglia del City in seguito all’infortunio di un compagno che gli permette di entrare nella squadra riserve nel ruolo, per lui piuttosto inedito, di mezzala. In prima squadra arriva nel 1928 e rimane al Manchester City fino al 1936, vincendo la F.A. Cup del 1934. In quello stesso anno disputa la sua prima e unica partita ufficiale con la Nazionale scozzese in una vittoria contro il Galles per 3-2 Nel 1936 trova un accordo con il Liverpool e in pochissimo tempo, diviene sia titolare che beniamino dei tifosi di Anfield. Gioca per altre tre stagioni, giusto il tempo di fare da chioccia al giovane Bill Shankly. È il 1939. Hitler invade la Polonia e il Governo inglese sospende tutti i campionati. Molti calciatori del Liverpool finiscono nel Reggimento Reale di fanteria. Il trentenne Busby viene invece chiamato a collaborare come allenatore nei reparti sportivi dell’esercito. Al termine del conflitto bellico il Liverpool lo richiama nelle vesti di giocatore-assistente dell’allenatore George Kay, ma Matt declina gentilmente l’invito: «Ho l’opportunità di diventare l’allenatore del Manchester United – disse – durante i miei giorni al City ho avuto modo di apprezzare quella città che mi attrae particolarmente». Pioggia a parte verrebbe da dire. Su quella scelta pesò molto l’antica amicizia con Louis Rocca, dirigente del Manchester United che aveva già provato ad averlo come giocatore. Busby ottiene così un contratto di cinque anni per realizzare il suo progetto di squadra vincente. Lo farà per sole 15 sterline alla settimana, ricostruendo una squadra vincente con quello che il conflitto gli aveva lasciato. Per il giovane Matt, una scelta azzeccata fu quella di scegliere come membro del suo Staff Tecnico Jimmy Murphy, affidandogli il ruolo di sviluppare il settore giovanile, anche in considerazione della totale assenza di fondi nel dopo guerra. Nel febbraio del 1946 mise a segno il suo primo colpo acquistando per 4.000 sterline Jimmy Delaney, velocissima ala destra del Celtic detto “Brittie Bones” (in pratica ossa fragili). Il presidente James Gibson lo asseconda, si rende conto che ha a che fare con un uomo convinto di ciò che vuole, e infatti due anni dopo ecco arrivare la Coppa d’Inghilterra a spese del Blackpool guidato dal baronetto Stanley Mattews. Era un tecnico rivoluzionario, dalla grande personalità, amante del gioco, e deciso di arrivare agli obbiettivi prefissati. Desiderava che la squadra e il manager fossero una sola cosa e cominciò a scendere in campo in maglietta e pantaloncini assieme ai suoi ragazzi durante gli allenamenti. Il suo Manchester arrivò al secondo posto per quattro volte in cinque anni in campionato finché, nel 1952, dopo la bellezza di quarantuno anni il titolo ritornò all’Old Trafford. Nel 1953 la società economicamente risanata acquistò Tommy Taylor per 29.999 sterline dal Barnsley. A proposito, quella sterlina la tolse al momento della firma sul contratto lo stesso Matt Busby, che da bravo psicologo (oppure da buon scozzese), temeva che la cifra tonda diventasse una zavorra di responsabilità che mentalmente potesse gravare sulle spalle del ragazzo e sulle aspettative dei tifosi La politica dei giovani cominciava a dare frutti dolcissimi. Roger Byrne, Eddie Colman, Bobby Charlton, David Pegg, Tommy Taylor e Dennis Viollet, insieme allo straordinario Duncan Edwards. Nel 1956 nel 1957 arrivano altre due affermazioni con la conquista di entrambi i campionati con una squadra dall’età media più bassa di sempre nella storia del calcio inglese, e a questo punto appare chiaro che l’obiettivo che inzia a profilarsi è la neonata o quasi Coppa dei Campioni d’Europa, finora preda esclusiva del Real Madrid. Il Teatro dei Sogni era diventato proscenio per quei giovani plasmati alla grinta e al bel gioco, ma soprattutto al rispetto per se stessi e per gli avversari, come d’altro canto recitava il più importante dei comandamenti del loro manager: “Ciò che importa più di tutte le altre cose è che una partita di calcio deve essere disputata con lo spirito giusto, ovvero con il rispetto degli avversari”. Insomma uno scozzese rubizzo e duro fuori ma dal cuore tenero dentro. Nel suo staff c’era il già citato Bert Whalley, (che recapitava settimanalmente lettere con su scritti giudizi tecnici su ogni singolo giocatore della rosa) e Tom Curry che aveva il compito di badare alla «crescita spirituale» dei “Babes”, molti dei quali lo seguivano alla Messa in Chiesa prima di ogni match. Jimmy Murphy, l’addetto ai giovanissimi, quel 6 febbraio come sempre intendeva seguire la squadra ma il destino lo salvò, poiché impegnato come visionatore per conto della nazionale. Whalley e Curry invece, come detto, non scamparono alla tragedia. Ma lentamente come un’araba fenice, il club dopo la sciagura risollevò la testa. È vero, da quel giorno del 1958, Bobby Charlton perse il sorriso e molti capelli ma non certamente la voglia di impegnarsi sul campo: quella tornò in fretta spinta dal desiderio di onorare i compagni scomparsi che fu da subito molto forte. Un po’ alla volta Busby sostituì le tessere del “mosaico” e arrivarono giocatori del calibro di Stiles, Kidd e Best. Nobby Peter Stiles, in arte Nobby, tipo basso e tarchiato, un autentico mastino che per un problema di piorrea a 25 anni aveva già perso quasi tutti i denti. Un ghigno terribile, addolcito da quella stretta di mano che con incredibile educazione offriva all’avversario appena abbattuto. Un giocatore paradossale, che incarnò il concetto della durezza del gioco, spinto fino agli estremi opposti del fair play. Brian Kidd era un “local boy” meticoloso e caparbio arrivato nel 1967, ma il suo contributo si fece sentire eccome. Su Best ogni presentazione è inutile: genio e sregolatezza della squadra di Busby. Nato a Belfast, arriva nelle giovanili del Manchester nel 1961 a 15 anni. Due anni dopo debutta sia in prima squadra che nella Nazionale nordirlandese: un campionario di talento, fatto di dribbling, cambi di direzione, cross, e controllo di palla superlativo. Per la Coppa dei Campioni era solo questione di tempo. Nel settembre del 1967, freschi di conquista del campionato, tra i giocatori dello United scattò convinta l’operazione Europa, guarda caso a dieci anni esatti dall’incidente di Monaco. Nemmeno a farlo apposta, la finale è in programma a Londra, la data da segnare sul calendario in rosso riporta 28 maggio 1968. Troppi indizi per non farne una prova. Il Manchester United arriva fino in fondo: elimina facilmente i suoi primi avversari, i maltesi dell’Hibernians, poi gli slavi del Sarajevo e i polacchi del Gornik Zabrze nei quarti, in una primavera che parve sbocciare mai così bella. Qualcosa di importante stava succedendo nel mondo in quel periodo e lo United in qualche maniera né era sportivamente protagonista. Nelle semifinali i “Red Devils” pescano un Real Madrid in declino, ma pur sempre temibile. In Inghilterra Best regalò la prima ai suoi, che però al ritorno nell’allora stadio di Chamartin (l’odierno Santiago Bernabueu), andarono vicini all’eliminazione. Alla fine primo tempo la squadra di Busby si trovò infatti sotto per 3-1. Nella ripresa giunse rabbiosa la reazione inglese. Il Manchester United accorcia le distanze con David Sadler, trovando il pareggio con l’esperienza del vecchio difensore Bill Foulkes. Bobby Charlton e compagni sono così in finale, dove ad aspettarli a Wembley c’è il Benfica di Eusebio. Charlton aveva vinto il mondiale due anni prima in quello stadio, insieme al capitano Bobby Moore al quale la Regina consegnò il trofeo. Disse che quella Coppa del Mondo, se non fosse deceduto, l’avrebbe sicuramente alzata Duncan Edwards. A dirigere la finale europea fu chiamato l’italiano Concetto Lo Bello. Il Benfica si dimostrò un osso duro, come da pronostico. Il match fu pulsante, ricco di emozioni, di colpi di scena. Bobby Charlton portò in vantaggio i suoi, ma a undici minuti dalla fine Garca rimise la gara in parità, rimandando tutto ai supplementari. Busby negli spogliatoi ricaricò muscoli e cervello dei ragazzi e, nel prolungamento dell’incontro lo United vestito di una splendida maglia di blu oltremare, demolì i portoghesi. In sei minuti i goal messi a segno furono ben 3: Best beffò il portiere Henrique con un gioco di prestigio da consumato attore, esitando beffardamente prima di infilare la palla in porta, poi arrivarono in ordine le reti di Kidd e ancora Charlton. 4-1, poteva bastare. È il trionfo della squadra di Matt Busby. Charlton lo cerca subito, lo abbraccia, non si capisce se quelle sulla fronte del centravanti sono gocce di sudore o lacrime. E’ un cerchio che si chiude. Gli orologi inglesi segnano le dieci di sera. Tutti meno uno. Quello dell’Old Trafford. Quello scandirà per sempre le 15:04 di giovedì 6 febbraio 1958. Glory, glory, Man United, As The Reds Go Marching On.

Simone Galeotti  tratto da uk football stories n.1

UK FOOTBALL STORIES n.4

copertina per il web

In questo numero troverete:

INDICE

01/ Editoriale  di Vincenzo LAcerenza

02/ La Championship delle Vecchie Glorie che punta al modello tedesco di Giuseppe Platania

03/ Brendan Rodgers di Matteo Viscardi

04/ Volveremos di Vincenzo Lacerenza

05/ University of Football di Andrea Dimasi

06/Dalla ripresa all’impresa scozzese del ‘67 di Vincenzo Paliotto

07/Blyth for the cup di Simone Galeotti

08/Il matto di Slamannan di Roberto Pivato

09/Banks of England di Stefano Ravaglia

10/Squadre dimenticate di Francesco Scabar

11/Mark Hughes di Giovanni Fasani

12/We Are Wimbledon di Marco Trombetta

13/Liverpool: la maledizione del Novanta di Angelo Tuttobene

14/Fans Club di Emilio Scibona

15/La musica, il calcio e lo stesso battito cardiaco di Matteo Ferazzoli

16/Book Corner di Jhonny Horp

EMLEY DREAM

A Emley nevica. Il cielo si fa bianco, il tempo rallenta, tutto diventa silenzioso e freddo. Meglio cercare rifugio al White Horse, dove ti accoglie il rincuorante crepitare di un caminetto acceso, e un bancone di mescita in solido legno. Emley è poco più di un villaggio, un ex villaggio minerario, disteso alle pendici dei monti pennini non molto lontano da Huddersfield. A Emley abitano 1.867 persone stabilite dall’ultimo censimento. C’é un fornaio, tre macellai, un mercante di stoffe, una tabaccheria, un fabbro, un fabbricante di candele, e il pub. Naturalmente non poteva mancare un ufficio delle reali poste e negli ultimi tempi ha fatto la sua comparsa anche un supermercato. E poi c’è lei. La stazione trasmittente radiotelevisiva più alta d’Inghilterra. La chiamano in gergo “Emley Moor Mast”, una colonna in cemento armato che si erge nei cieli del West Yorkshire per oltre un chilometro e seicento metri.

Verso la fine del 1997 questo sonnolento borgo inglese fu improvvisamente catapultato sulle pagine dei giornali e letteralmente assediato da ingenti troupe televisive. Non si trattava di un nuovo cerchio nel grano né tanto meno, del ritrovamento del corpo di Re Artù. Molto più prosaicamente questa manciata di case strette intorno alla Chiesa di San Michele, l’aveva combinata bella. La sua squadra di calcio persa nei bassifondi della piramide inglese, era riuscita incredibilmente ad approdare al terzo turno della Coppa d’Inghilterra, e ora il 3 di gennaio sarebbe scesa a Londra a giocare contro lo West Ham United al Boleyn Ground, dove, non solo ovviamente i 1.867 abitanti di Emley potevano sistemarsi comodamente larghi, ma dove forse si sarebbe potuto infilare buona parte delle case del paesino.

Insomma tutti i principali quotidiani nazionali si recarono su al nord per visitare Emley e la maggior parte di loro, dopo aver visto il posto e il Welfare Ground, non credevano ai loro occhi. Come poteva questa piccola squadra, allenata dallo scozzese Ronnie Glavin, competere e impensierire il West Ham guidato da Harry Redknapp, ottavo in quel momento in Premiership. Un club vincitore tre volte della FA Cup, una volta della Coppa delle Coppe, dove un giocatore riceveva 10.000 sterline a settimana e vestiva tutti i giorni abiti firmati. Solo in FA Cup queste cose potevano accadere stranezze che si avverano, in una competizione che non ci stancheremo mai di definire davvero unica.

Eppure l’Emley AFC, a dire il vero non era del tutto un illustre sconosciuto. Il club era stato fondato ufficialmente nel 1903 con il nome di Emley Clarence FC, dal 1960 era iscritto con un certo successo ai campionati dilettantistici nazionali, e nel 1988 era anche riuscito ad arrivare a Wembley a giocarsi la finale del Vase dove però dovette cedere 1-0 al Colne Dynamoes.

Fatto sta che nei turni preliminari della FA Cup 1997/98 le “pewits”, che in italiano suona come pavoncelle, eliminano nell’ordine: Workington Town, Durham City, Belper Town, e Nuneaton Borough. Sembrava già un’impresa essere arrivati al primo turno, dove cominciavano a entrare in scena squadre professionistiche di terza e quarta divisione. Insomma poteva bastare così. Se sabato 15 novembre 1997 l’Emley fosse uscito con le ossa rotte da Morecambe, tutto sommato poteva anche starci. In paese avrebbero fatto una bella festa, qualche bevuta, e poi il lunedì successivo tutti a lavorare. E, in effetti, le cose non cominciarono per niente bene, il Morecambe segnò e chiuse il primo tempo in vantaggio. Se non che, nella ripresa un certo Ian Banks detto “Banger”, un ex giocatore di categorie superiori venuto a Emley a chiudere la carriera agonistica, mise a segno un calcio di rigore che fisserà il match sull’1-1, rimandando tutto al replay. Un incontro, quello disputato dieci giorni dopo, caratterizzato da sprazzi di pioggia e repentine incursioni di nebbia. In quell’atmosfera da letteratura gotica, già di per se carica d’adrenalina, non avrebbe impressionato nessuno nemmeno l’ingresso sul terreno di gioco di un cavaliere senza testa al galoppo. Tutti sarebbero rimasti concentrati ad osservare le azioni di gioco, ad applaudire alla doppietta di Glynn Hurst, e al centro di Garry Marshall. In un alternanza di emozioni incredibili fra tempi regolamentari e supplementari, che portarono la gara sul 3-3, e quindi alla lotteria dei calci di rigore nella quale l’Emley fu più preciso e fortunato dei suoi avversari, conquistando così il secondo turno.
L’avversario si conosceva già dopo il sorteggio effettuato al termine del primo match di Morecambe, ovvero il Lincoln City, che attendeva i petwits a Sincil Bank il 6 dicembre con malcelata soddisfazione. A non far scommettere nemmeno un penny sull’Emley ,servì sapere che all’incontro contro la squadra allenata dall’astuto e malizioso John Beck non avrebbero partecipato ne il capitano Banks ne il centrale difensivo Neil Lacey che si presentò con un paio di stampelle a causa dell’infortunio rimediato nell’ultima gara di campionato con il Solihull Borough. Una disfatta annunciata? No. Anche stavolta i clarets&blu non si scomporranno più di tanto di fronte alle folate offensive dei padroni di casa. Nemmeno il vantaggio quasi immediato degli Imps minerà le certezze dei ragazzi dell’Emley, tanto che prima della fine del primo tempo, Hurst da una quindicina di metri sbucando quasi dal nulla, infilò in porta il pallone dell’pareggio. I fuochi d’artificio però dovevano ancora arrivare. A sei minuti dalla fine un cross dalla destra di Hurst cadde nella zona di Deiniol Graham. Deiniol alzò gli occhi al cielo un po’ per ringraziare gli avi di averlo messo nel posto giusto al momento giusto, un po’ per capire come si sarebbe dovuto coordinare per colpire al meglio la sfera. L’impatto fu perfetto, e il portiere del City sfiorò solo leggermente la palla che terminò violentemente in rete per il visibilio dei fan dell’Emley. Solo che il calcio è maledettamente crudele, e da un abisso di felicità, si precipita nella depressione più cupa. E infatti, quasi a giochi fatti i padroni di casa troveranno un insperato pareggio sul quale Chris Marples non poté opporsi.

Certo, chi di Emley non avrebbe firmato per un pareggio prima della gara? Sicuramente tutti, ma per come si erano messe le cose c’era di che infuriarsi. In ogni caso i rimpianti adesso non servivano. Bisognava disputare un’altra partita con il Lincoln City, e l’Emley AFC lo avrebbe fatto a Huddersfield al McAlpine Stadium, poiché, il piccolo impianto locale non avrebbe certo sopportato la richiesta di biglietti e di sicurezza. Su Huddersfield nevicava. Quello del maltempo sarà un fattore che accompagnerà l’Emley anche a Londra e qualcuno azzardò che fosse il portafortuna della squadra. Intanto quella sera andò una meraviglia, in una partita non troppo adatta ai deboli di cuore. I novanta minuti si chiusero su uno scoppiettante 3-3 grazie alla marcatura di Hurst e soprattutto alla doppietta di Steve Nicholson. I tiri dal dischetto furono “l’interregno” di Chris Marples, e la precisione dei suoi compagni fece il resto. Emley 4- Lincoln City 3. Il villaggio andava a Londra. Nessuno ci credeva, sgorgò qualche lacrima, e partì il coro “we’re going to Upton Park”. Quella fu la più grande notte di sempre di questo club, e i giorni successivi in molti si stupirono di trovarsi fuori dal giardino le telecamere di Sky.

Il sabato londinese è maltempo allo stato puro. Un 3 di gennaio, soldato fedelissimo al Generale Inverno. Pioggia e vento flagellano la capitale. I tifosi dell’Emley furono sistemati sulla parte inferiore della Centenary Stand. Sono tanti, forse troppi, sicuramente più dei 1.800 che abitano il paese. Probabilmente qualcuno da Huddersfield e da Barnsley è sceso con loro a dare man forte. Lo West Ham iniziò la partita senza Steve Lomas (squalificato), e Andy Impey (infortunato), più John Moncur e Ian Bishop non in perfette condizioni e con Rio Ferdinand costretto a giocare in un ruolo di centrocampista a lui non troppo familiare. David Unsworth si mise la fascia di capitano degli Hammers per la prima volta e una certa emozione gli si dipinse sul volto. E l’Emley? I 26.000 del Bolyen osservano questo gruppo in maglia bianca da trasferta (per non confondere la propria divisa con quella quasi identica dell’West Ham) con una certa curiosità e perplessità. Poi non appena l’arbitro da il via alla gara sembra che le sette divisioni di differenza che intercorrevano fra i due club ci siano tutte, e forse anche di più. Subito una traversa di Paul Kitson, e cinque minuti d’orologio dopo Frank Lampard porta i “martelli” avanti 1-0.

Pare tutto facile, tutto fin troppo semplice, come da previsione del resto. Nel secondo tempo invece, è tutta un’altra storia. L’Emley, appare rinvigorito dalla pausa, quello stadio non fa più molta paura, nemmeno il West Ham appare una corazzata. ”Gli abitanti del villaggio”, composto di postini, venditori di assicurazioni e un vigile del fuoco tra gli altri, sconvolge l’intero stadio sulle conseguenze di un maldestro calcio d’angolo che gli Hammers non riuscirono ad evitare. Dalla bandierina Dean Calcutt indirizzò uno spiovente che impatta nella testa calva di Paul David. Craig Forrest cercò di smanacciare qualcosa, ma tutto tranne che il pallone. 1-1.

E sorprendentemente, sull’onda euforica del pareggio quelli del West Yorkshire si spingono coraggiosamente in avanti alla ricerca del colpo assassino, del Giant Killing epocale. Ma il loro eroismo non sarà premiato. Con solo otto minuti rimasti da giocare, Stan Lazarides serve un pallone telecomandato in area di rigore verso “il troppo smarcato” John Hartson, che di testa chiuderà il conto. A questo punto l’Emley appare visibilmente scosso, stanco e demoralizzato, ma al fischio finale, l’intero Upton Park si alzò ad applaudire questa squadra che era venuta fin qui a cercare un sogno.

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di Simone Galeotti

I PIONIERI DI SHEFFIELD

Il Bedford Duple Coach avanza lentamente con le sue morbide linee metalliche all’interno dell’Abbeydale Park. E’ la mattina del 24 ottobre 1957. L’autunno inglese cala una di quelle sue tipiche velature nebbiose, provando a nascondere tutto l’orgoglio secolare delle vecchie querce, degli arbusti e dei roseti lungo il percorso del mezzo, mentre intanto piccoli scoiattoli si cimentano in vertiginose corse sui mille disegni della corteccia dei tronchi. Quando il piccolo bus si ferma davanti all’ingresso del Club House, i primi a scendere sono eleganti signori incappottati, seguiti da un gruppo di passeggeri più giovani in giacche d’ordinanza. Facce sorridenti, e cappello in testa per i più anziani. Un accessorio, ancora irrinunciabile, soprattutto nelle occasioni formali. Loro, sono i dirigenti e i giocatori dello Sheffield Football Club, la più antica squadra del mondo. Quel giorno, il club fondato nel 1857 festeggiava un importante compleanno. Compiva esattamente 100 anni. E fu proprio in quello spicchio di verde incantato del South Yorkshire, che dal 1921 ospitava le vicende della squadra, che l’organigramma vecchio e nuovo del club si ritrovò per i primi convenevoli di rito e il pranzo, in attesa degli eventi del pomeriggio.

Quel giorno, a Sheffield sarebbe arrivato il principe Filippo, Duca di Edimburgo, consorte della Regina Elisabetta. Con quel suo essere così tremendamente inglese, con il suo humour tutto personale, con la sua aria vagamente distratta, sarà lui, l’ospite d’onore per i festeggiamenti. Per l’occasione la squadra avrebbe giocato un’ amichevole allo stadio di Bramall Lane con gli scozzesi del Queen’s Park di Glasgow, per contro la più antica società calcistica di Scozia.

Il Principe Filippo arrivò in perfetto orario a bordo di una brillante Rolls Royce applaudito da due ali di folla e scortato da agenti su imponenti cavalli bianchi. I giornali locali titolavano “Welcome”, mentre bandiere, fiori e insegne reali facevano bella mostra di sè su finestre e davanzali, aggraziando e ingentilendo, il rigore post bellico dei palazzi della città dell’acciaio. Per l’occasione la tribuna principale era stata addobbata e inghirlandata con il consueto e aulico nobile aspetto. In oltre 5000 accorsero per l’evento. L’esecuzione dell’inno nazionale, e il cerimoniale di rito. Gli spiders di Glasgow con la loro maglia a finissimi cerchi orizzontali, e “il Club” con una raffinata divisa a scacchi rossoneri. Finì con un salomonico pareggio per 2-2, dopo che gli scozzesi erano passati due volte in vantaggio. Di seguito le celebrazioni previdero una fastosa serata di gala in cui ovviamente al tavolo d’onore sedevano il Duca di Edimburgo, le alte autorità cittadine, e i responsabili del club.

“In cento anni hanno giocato per noi oltre seimila calciatori”

Fu questa la stima di Jim Hardie, segretario della società, con un passato da attaccante nel periodo compreso tra il 1939 e il 1947.

Peccato solo che per ovvi motivi d’anagrafe non spiccava tra i presenti la barba “darwiniana” di Nathaniel Creswick e i baffi a manubrio di William Prest, i due padri fondatori che in quel lontano 1857 decisero di infondere la scintilla del sacro fuoco, in una riunione tenutasi all’interno di un salotto della Parkfield House, nel sobborgo di Highfields. La casa brulicava di avvocati, commercianti, manifatturieri. Non mancavano neppure architetti, medici, e c’era perfino qualche reverendo. Il padrone di casa, un certo Harry Waters Chambers, è un amico stretto di Nathaniel, resosi disponibile ad ospitare tra le mura domestiche il fatale incontro che portò alla fondazione dello Sheffield Football Club. Nathaniel rivestì il doppio incarico di segretario e tesoriere, William si limitò a far parte del comitato fondatore. Per la presidenza la scelta ricadde su Frederick Ward, figlio di Thomas Asline Ward, uno degli uomini più in vista della città, mentre la serra nel giardino della loro abitazione, situata in East Bank Road, fungerà inizialmente da quartier generale della società. Creswick ha 26 anni ed è un avvocato, Prest ha tre anni di meno, è originario di York, e a Sheffield vi arriva per collaborare con il fratello John che gestisce una rivendita di alcolici. I due erano membri di quello Sheffield Cricket Club, che due anni prima aveva organizzato un primo improvvisato torneo di calcio. Alle celebrazioni del 1957 la coppia Creswick- Prest mancava certo, ma non nel ricordo, come pure furono ricordati quei giocatori che scesero in campo almeno una volta con la nazionale inglese. Charles Clegg su tutti, in seguito diventato presidente della FA, e che ebbe l’onore di giocare nella prima famosa partita internazionale contro la Scozia ad Hamilton Crescent nel 1872, e poi John Owen convocato nel 1874, e infine John Hudson che indossò la divisa con i tre leoni sul petto nel 1883.

Un passo indietro. Cambridge, 1848. Mentre l’Europa è sconvolta da venti irridenti, e le aspre contese di confini e libertà, infiammano i cuori degli uomini, nel rinomato college si tratta anche di argomenti meno impegnativi. Gli sforzi di H. de Winton e J.C. Thring porteranno alla formulazione di un gioco, che prevedeva dieci alunni, ed un maestro (da qui gli 11 uomini e la figura del”capitano”, ossia il responsabile della direzione dei propri alunni) che sfidavano altri dieci più uno di altre classi, tutte elitarie, in spazi chiusi. Il fatto di giocare esclusivamente tra di loro, stava un po’ stretto alle classi dell’università di Cambridge, così, Winton e Thring decisero di unire Eton, Harrow, Rugby School, Winchester, e Shrewsbury, per cercare di sviluppare prime regole basilari: le Regole di Cambridge, le primordiali regole del calcio. La palla da quel momento sfila dalle mani e rotola a terra. Forse meno nobile, ma forse più divertente. Nella mite bellezza della campagna inglese, iniziano a echeggiare rimbombi profondi, nuovi, è il rimbalzo, il metronomo cardiaco della vita calcistica. Si gioca con i piedi; non si passa più solo e soltanto indietro, no, adesso si scambia lateralmente, per poi evolversi nel lancio in avanti.

Sostanzialmente il calcio restò, comunque, confinato tra le mura universitarie per circa nove anni, ma evidentemente per qualcuno il decalogo degli universitari di Cambridge non era più sufficiente. Per il duo di Sheffield, Creswick – Prest, occorreva redigere un nuovo regolamento, migliorativo e più moderno. E’ così il 21 ottobre 1858 prendevano vita su carta, le cosiddette Sheffield Rules. Si trattò di legiferare sui calci d’angolo, sulle rimesse laterali, su quelle dal fondo, sui colpi di testa, sull’introduzione della traversa sulle porte, e del primo barlume di fuorigioco, poi codificato meglio con la nascita della Football Association nella Freemasons’ Tavern di Queen Street a Londra, lunedì 26 ottobre 1863. Una specifica quest’ultima assai importante, perché a quei tempi molti calciatori sostavano pigri e indolenti nei pressi del portiere, giacché ogni occasione era buona per segnare un goal e strizzare l’occhio compiaciuto alla signorina sorridente a bordo campo.

La Regina Vittoria era in carica da quasi vent’anni e Sheffield era una grigia e facoltosa città industriale dell’impero attraversata dal fiume Shaf. Forse, troppo facoltosa. Si presume che il proliferare delle nuove fabbriche fu fra le cause principali dell’epidemia di colera che nel 1839 uccise quasi 400 persone. Nessuno, avrebbe mai pensato che da qui potesse partire l’impulso forse decisivo nella storia del calcio. E invece, nel giro di cinque anni l’area cittadina arrivò a contare più di quindici squadre, e questo permise, di fatto, una ramificazione costante e sempre più produttiva di questo sport, che ben presto spinse altre città a formare squadre, scendere in campo e confrontarsi. Inizialmente, però poiché non c’erano altri team con cui giocare, le partite erano disputate tra i giocatori della stessa compagine. E quindi, ecco le classiche sfide scapoli contro ammogliati, o le più originali divisioni fra occupati contro disoccupati, alti contro bassi e altre amene trovate, finché nel 1860, sempre nella cittadina di Sheffield, scoppia l’altra scintilla. Fu fondata un’altra squadra, l’Hallam Football Club, contro la quale inevitabilmente lo Sheffield FC disputò la sua prima partita. L’incontro finì due reti a zero per lo Sheffield, con l’unica rete refertata siglata del capitano Creswick, ma pare con una grande prestazione del capitano avversario John C. Shaw, figura leggendaria del calcio inglese, che, grazie alla sua maestria, permise al gioco di diffondersi anche in altre realtà. Ah, una piccola curiosità. E qui che nasce la divisione dei classici colori, Rossi contro Blu, riportata poi ovunque nei giochi dediti a emulare questo sport, dai pupazzi del biliardino d’origine franco-tedesca, agli “omini” del subbuteo di natali britannici.

La stracittadina sarà ripresentata l’anno seguente, per scopo nobile e benefico: raccogliere fondi per l’ospedale di Wall Street. All’Hyde Park saranno presenti oltre 600 persone. La partita durò circa tre ore e i calciatori non si risparmiarono negli interventi e in qualche colpetto vietato, per quella che passò alla storia come la “Battaglia di Bramall Lane”, finita a reti inviolate. Pensate, la partita non si sarebbe dovuta disputare, per via della reticenza dei proprietari dell’impianto che non vedevano altri “dei” sportivi all’infuori del cricket, ma la motivazione a scopo benefico lasciò alla fine spazio per la gara. Altra giornata da ricordare è la prima trasferta del club; il 2 gennaio 1865, i giocatori andranno a Nottingham, a sfidare il neonato Forest, e dopo tre ore di gioco, lo Sheffield si impose col minimo scarto. Questa partita vide la comparsa dei primi parastinchi e il fischietto dell’arbitro, che poteva così comunicare meglio le sanzioni e le decisioni. La leggenda vuole che il giorno dopo la partita, le persone che aspettavano il treno alla stazione di Wicker (Nottingham), per passare il tempo in attesa del rispettivo convoglio, modellasse, un empirico pallone di stoffa, e iniziassero a calciarlo, per prendere dimestichezza con il nuovo gioco.

Solo quando lo Sheffield FC scese a Londra per il suo primo match nella capitale, avvenuto a Battersea Park, fu finalmente stabilita la durata di una partita. Ogni incontro avrebbe avuto insindacabilmente due tempi da quarantacinque minuti.

Fare solo amichevoli però iniziava ad annoiare, e qui nasce l’ennesima iniziativa: si creerà, con un pugno di sterline, la Youdan Cup, un torneo comprensivo di tutte le formazioni intenzionate a parteciparvi, che vide trionfare, a Bramall Lane, l’Hallam F.C. Un evento dove lo Sheffield, non parteciperà, per via di problemi, ad oggi ancora sconosciuti, legati al capitano della squadra ed alcuni suoi compagni.

Lo Sheffield FC, tuttavia, come molti altri sodalizi impegnati nel loro slancio di benefico e puro divertimento, ebbe un rapido declino agli inizi del novecento con l’avvento massiccio del calcio professionistico, non riuscendo mai più a competere sia economicamente che tecnicamente con le squadre di più alto livello. Anche in questo caso, però, i pionieri del calcio moderno si rivelarono lungimiranti, suggerendo alla FA di creare una competizione per soli club amatoriali, creando a tal proposito la celeberrima FA Amateur Cup, vinta dallo Sheffield FC nel 1904 contro l’Ealing. Di quel giorno resta una foto d’epoca sbiadita dal tempo che ritrae il gruppo al Valley Parade di Bradford, e che nella didascalia sottostante recita così:

” Bolsover, Chambers,Milnes, Green, Potts, Frost, Sylvester, Bedford, Hoyland G.,Hoyland J.E.,Forsdyke. Mr. Percy Green vive attualmentea Bradfield, mentre Mr. Frost a Dore. Si ritiene che Mr.Forsdyke sia in Canada.”

Sarebbero tornati a giocarsi una finale nel rinominato FA Vase nel 1977 a Wembley. Oltre tremila tifosi giungeranno dalla Steel City, tra cui alcuni sostenitori dello Sheffield United che rinunciarono alla partita che la loro squadra del cuore giocava in quello stesso giorno contro il Chelsea. Nell’altra metà campo ci sono i campioni in carica del Billericay Town: nessuna delle due formazioni riesce a prevalere sull’altra, si va alla ripetizione. Il 24enne John Pugh, insegnante al Politecnico, mise la firma sulla prima ed unica rete segnata dallo Sheffield Football Club nello stadio nazionale. Si tornò in campo per il replay stavolta al City Ground, la tana del Nottingham Forest. Ancora una volta le due squadre dimostrano che la differenza dei rispettivi valori era minima. Ma il trofeo, per il secondo anno consecutivo, finì tra le mani dei giocatori del Billericay, dopo il 2-1 finale.

Se è vero, che gli anni ottanta sono stati un periodo difficile per il calcio inglese, è altrettanto vero che lo Sheffield Football Club non ne rimase immune. Gli anni ottanta, infatti, saranno il decennio che accompagnerà il pallone nel periodo che lo stravolgerà definitivamente, con la televisione sempre più invasiva, e con gli stipendi dei calciatori che subiranno un’impennata paurosa. Cambiamenti importanti che colpirono pure la società britannica: il settore secondario andò in crisi, come dimostrato dagli scioperi dei minatori e dalle condizioni proibitive di alcuni settori trainanti dell’industria britannica. Ovvio che anche il comparto dell’acciaio perno dell’economia di Sheffield ne risentì: la produzione scenderà repentinamente, la disoccupazione subì un impennata, e nella decade successiva si registreranno migliaia di licenziamenti. Non è un caso che, in concomitanza con la crisi delle acciaierie, gli stessi United e Wednesday si ritrovino ad annaspare nelle divisioni inferiori del calcio inglese. Quanto allo Sheffield Football Club, il vero problema saranno le spese di manutenzione della società, in costante aumento. Nel 1988 la squadra non può più permettersi di giocare nel bucolico terreno di Abbeydale Park e dopo oltre sessanta anni deve traslocare a Hillsborough Park, a pochi passi dalla casa delle Owls.

Nel 2007 il club ha festeggiato il 150° anniversario dalla sua fondazione. A rendere omaggio, il sempre iconico Pelé, e un amichevole contro i milanesi dell’Inter. Un evento, che ebbe un gradito anticipo nel 2004, in occasione dalla consegna del “FIFA Order Of Merit”, la più importante onorificenza attribuita dal massimo organo calcistico mondiale, facendo divenire così lo Sheffield FC l’unico club al mondo insieme al Real Madrid ad averlo ricevuto.

C’è anche una pagina un po’ triste a corollario della storia di questo sodalizio. Quella datata quattordici luglio 2011 quando il “Football original rulebook”, una copia unica scritta a mano del libretto contenente le storiche Sheffield Rules e una parte dell’archivio del club, furono messe in vendita dalla società attraverso la nota casa d’aste Sotheby’s; la ragione di tale azione fu evitare la bancarotta ed il conseguente fallimento. Inevitabile o meno che sia stato il gesto, il prezzo battuto disse 881.250 sterline.

Una cifra che non è niente in confronto all’importanza di questa squadra, nata all’alba del gioco, e caparbiamente rimasta all’ombra dei riflettori del business seguendo i dogmi della loro originaria filosofia. Oggi se volete andare a trovarlo occorre che vi rechiate al Dronfield Coach and Horses, un delizioso pub recentemente ristrutturato e situato all’estremità inferiore di Sheffield. Bevetevi una Thornbridge Brewery, uscite e salite di qualche passo. Il campo dei pionieri adesso e lì..download

di Simone Galeotti

Books e numeri

Soccerdata books di Marco D’ Avanzo , ci  regala dei  capolovari di statistica su alcune squadre britanniche, assolutamente da non perdere…

LIVERPOOL in INTERNATIONAL CUPS 1964-2016

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CELTIC GLASGOW in CHAMPIONS LEAGUE 1966-2016

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FA CUP FINAL 1973 Sunderland – Leeds

Quando il signor Ken Burns da Stourbridge fischia la fine dell’incontro, lo spicchio di Wembley colorato di biancorosso esplode in un boato di gioia. E Bob Stokoe si alza dalla panchina e corre. Il Sunderland ha appena conquistato la sua seconda FA Cup battendo in una finale palpitante di emozioni, il Leeds United di Don Revie. Lo ha fatto non solo da sfavorito ma anche da compagine di seconda divisione. Era la prima volta dal dopoguerra che un team “cadetto” saliva i gradini del royal box per ricevere il trofeo. Accadde anche nel 1931 con il WBA. Accadrà di nuovo nel 1980 quando un frizzante e irrispettoso West Ham befferà l’Arsenal detentore. Anche quel 5 maggio 1973 i bianchi di Elland Road si inchineranno al Sunderland da campioni uscenti. Corsi e ricorsi storici. Poesia e bellezza della coppa più antica del mondo. E intanto, Bob Stokoe continua a correre. Bob Stokoe è il manager dei black cats da cinque mesi. Ha raccolto una squadra che navigava nelle torbide acque dei bassifondi di classifica dell’ostica second division. Con lui al timone il Sunderland virerà decisamente verso posizioni di classifica di tutto rispetto e sopratutto raggiungerà l’atto finale della coppa. Corre impazzito di felicità. Corre verso Jimmy Montgomery. Corre ad abbracciare quel portiere che con due parate strepitose ha consentito al club del nord est d’Inghilterra di mantenere la rete di vantaggio e aggiudicarsi la coppa. La sua corsa a braccia aperte, cappello marrone a nascondere una calvizie incipiente, impermeabile trench beige sopra la tuta d’ordinanza rossa, resterà nella memoria come uno dei momenti più carichi di entusiasmo e commozione di sempre. Ad immortalarlo in quell’attimo, saranno non solo le riprese televisive e i flash dei fotografi, ma anche una statua che oggi campeggia all’esterno dello Stadium of Light. Omaggio e tributo all’uomo. Ricordo e testimonianza per chi quel giorno l’ha vissuto. Ma anche per chi non c’era. Per chi ci sarà, e vorrà capire la magia di certe emozioni. Per lui la vittoria sarà doppia. Racconterà che un giorno quando era alla guida del Bury, Don Revie cercò di corromperlo per favorire il successo dei suoi. L’incrocio di destini è straordinario se si pensa che Brian Clough forse il maggior nemico giurato di Revie si infortunò giocando guarda caso per il Sunderland proprio contro il Bury di Stokoe, per poi prendere il posto di Donald George Revie al Leeds quando quest’ultimo assunse la guida della nazionale. Come detto in precedenza c’era già una coppa d’Inghilterra nella vetrina dell’argenteria del Roker Park, il vecchio e glorioso stadio del Sunderland. Costruito per rivaleggiare in grandezza con gli odiati vicini di Newcastle ed inaugurato nel 1898. Fu abbandonato nel 1997 a favore di un complesso di case residenziali e per far posto al nuovo Stadium of Light. Un gioiello. Moderno e confortevole. Ma il cuore di tanti tifosi pulsa ancora sotto inclementi colate di cemento. Quella coppa, la prima, era datata 1937. Per gli annali, il Sunderland si impose 3-1 sul Preston di fronte a 121919 spettatori. Per la statistica andarono a segno Gurney, Carter, e Burbanks. Per i romantici, un ragazzino di dodici anni, Billy Morris, entra a Wembley con un gattino nero in tasca. Un portafortuna. Sarà uno dei motivi (ma non l’unico) per cui nel 2000 quando il club decise di indire un referendum per eleggere definitivamente il nick name della squadra l’appellativo “Black Cats” vincerà con largo margine. La FA Cup 1973 inizia nel tradizionale “terzo turno” di gennaio dove entra in scena la nobiltà vecchia e nuova di prima e seconda divisione. Inizia a Nottingham, sponda Notts County. Al Meadow Lane finirà 1-1, ma nel replay giocato in casa tre giorni dopo il Sunderland si imporrà per 2-0. Al quarto turno servirà ancora una ripetizione per decidere chi potrà accedere al turno successivo. Dopo che il Reading ha imposto il pareggio per 1-1 al Roker Park i biancorossi vanno a vincere in trasferta 3-1. Negli ottavi o se preferite al quinto turno l’abbonamento al replay del Sunderland prosegue. E questa volta il club di Stokoe fa una vittima illustre. Il Manchester City che aveva eliminato il Liverpool. Al Maine Road è un autentica battaglia che terminerà sul 2-2. Ma in casa il Sunderland non fa sconti e i Citizens si arrendono. 3-1!. La coppa entra nel vivo e sabato 17 marzo nei quarti di finale, l’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. I Black cats pescano il Luton Town e lo affrontano fra le mure amiche. Finirà 2-0 e per il club di Roker park si aprono le porte di Hillsborough. Si aprono le porte della semifinale, preludio agli sfarzi di Wembley. Ma l’impresa è ardua. C’e da battere l’Arsenal e l’emozione di certe serate. In quelle semifinali ad eccezione del Sunderland che come detto militava in seconda divisione, gli altri tre team erano tutte squadre di massima serie e tra le altre cose anche le migliori visto e considerato che al termine del campionato l’Arsenal giunse secondo alle spalle del Liverpool campione, il Leeds United si classificò terzo e il Wolverhampton Wanderers finì la stagione al quinto posto. Sunderland- Arsenal, dunque. E’ il 7 aprile 1973. La muraglia umana dei tifosi è impressionante su tutti i lati dello stadio. Ci saranno in totale oltre 55000 spettatori. Per la città di Sunderland è già un evento. Si muoveranno in 23000, fra treni, autobus, e mezzi privati. I gunners scendono in campo con la maglia da trasferta gialla su pantaloncini blu, come al solito un effetto cromatico straordinario sul rettangolo verde. Il Sunderland opta per un impeccabile tenuta completamente bianca. La damigella al gran ballo dell’aristocrazia. Su Hillsborough tira un vento insidioso. I centrali dell’Arsenal commettono un errore sulla ribattuta dei centrocampisti avversari e Vic Halom ne approffitta per battere Wilson con un mezzo pallonetto. Alla fine del primo tempo i ragazzi di Stokoe sono avanti 1-0. Nella ripresa la convinzione di potercela fare cresce con il passare dei minuti e diventa quasi una certezza quando Hughes di testa raddoppia per i suoi su una rimessa in gioco di Bobby Kerr spizzicata leggermente da Dennis Tueart. L’Arsenal proverà a rientrare in partita ma il goal di Charlie George nel finale di gara non sarà sufficiente. Il Sunderland andrà a Wembley a giocarsi la finale con il Leeds United che intanto nell’altra semifinale, ha battuto i Wolves 1-0 a Maine Road con una rete di Billy Bremner. Immediatamente si scatenò un autentica corsa al biglietto. Tutta Sunderland avrebbe voluto scendere a Londra. Una Sunderland quella dei primi anni settanta che ancora vantava uno dei cantieri navali più importanti del mondo, gli shipyards, dove generazioni di operai piegavano l’acciaio sotto cieli perennemente grigi, ma almeno con una busta paga a fine mese. Dove ancora le miniere non risentivano della crisi e degli scioperi degli anni ottanta. Dove il Wearmouth Bridge accoglieva il sempre maggiore volume di traffico cittadino. Il 5 maggio 1973, mentre il presidente della Federcalcio Inglese e il Duca di Kent salutavano le due squadre sotto le torri dell’ Empire Stadium, Sunderland era deserta. Coloro che erano rimasti a casa si incollarono a radio e tv per seguire la partita. Per le agenzie di scommesse non ci sarebbe stata partita. Troppo più forte il Leeds United. Troppo più smaliziata ed esperta la squadra di Don Revie che per ogni ruolo poteva permettersi di schierare un nazionale. Uno squadrone stellare temuto ovunque e che se nel campionato appena concluso era arrivato solo terzo, aveva raggiunto non solo questa finale di FA Cup ma anche l’atto finale della Coppe delle Coppe. Avrebbe sfidato il Milan di Rocco e Rivera a Salonicco, in una partita i cui echi risuonarono per molto tempo. Al 30° della prima frazione di gioco David Harvey il portiere del Leeds, alza sopra la traversa un pallonetto da quasi metà campo di Kerr. Dalla bandierina Billy Hughes scodella un pallone che carambola maldestramente sulle gambe di Halom, ma quel controllo approssimativo, permetterà allo scozzese Ian Porterfield, di battere violentemente a rete il goal dell’ 1-0. Sarà la rete che deciderà l’incontro, ma il momento decisivo è senza dubbio quello avvenuto a venti minuti dalla fine. Reaney mette in mezzo un pallone che Cherry gira verso la porta, ma Montgomery con un tuffo prodigioso dice di no deviando il pallone però nei piedi dell’accorrente Peter Lorimer. Sembra fatta per il Leeds, sembra che quel meraviglioso pallone color ocra debba placidamente terminare la sua corsa nelle capienti reti di Wembley. Ma il destino di quella partita è già stato scritto a favore del Sunderland e Montgomery riesce miracolosamente a intercettare la sfera che come impazzita carambola solo sulla traversa. E l’episodio che permetterà a capitan Kerr di alzare con orgoglio sul palco d’onore la coppa d’Inghilterra mentre nel cielo di Londra esplode l’urlo dei supporters biancorossi, e a Sunderland è festa grande. Al ritorno in città un autobus scoperto portò in parata gli eroi di Wembley da Carville a Roker Park, fra scene di genuino entusiasmo popolare. Ci riproveranno diciannove anni dopo. Ancora da squadra di seconda divisione. Ma il 9 maggio 1992 il Liverpool di Greame Souness si imporrà per 2-0 spegnendo i nuovi sogni di gloria dei black cats.

 

Simone Galeotti

Edinburgh Derby, Hearts-Hibernian

 Non rappresenterà l’aristocrazia allo stato puro del calcio scozzese, il predominio di Glasgow sulla scena nazionale è a dir poco inarrivabile con il blasone e l’enorme quantità di trofei vinti da Celtic e Rangers, ma l’Edinburgh Derby, la stracittadina della capitale, identifica uno dei momenti più belli dal punto di vista del folklore e dello spettacolo del football nella tradizionale Scozia. Il derby di Edimburgo mette di fronte gli Hearts of Midlothian, fondati nel 1874, e l’Hibernian, nato appena un anno più tardi. Nel dualismo cittadino tra i due storici club si riconosce una rivalità che supera di gran lunga i meri confini calcistici e agonistici. Quelli che sostengono gli Hearts sono, infatti, di fede protestante, mentre i biancoverdi dell’Hibernian sbandierano la fede cattolica. L’Hibernian è stato fondato a Cowgate, un’antica zona della città, da irlandesi, che del resto rievocarono il romanico Hibernia, antico nome d’Irlanda. I colori sociali del club, lo stemma sociale e le tradizioni ricordano l’Irlanda, ma la tifoseria ha allargato i propri affiliati ad altri supporters senza distinzione di razza e di fede religiosa. L’Hibernian è stato il primo club della costa orientale della Scozia a vincere la FA Cup nazionale e sul finire dell’Ottocento superò in una gara amichevole anche i titolatissimi inglesi del Preston North End. Gli Hearts, invece, sono nati anche un anno prima degli hibs e la loro denominazione sociale pare derivare da una danza molto in voga in quel periodo del XIX secolo. I loro colori sociali sono da sempre il bianco ed il rosso scuro, proprio per ricordare in qualche modo il colore dei cuori. Il primo derby nella capitale scozzese si è disputato addirittura nel giorno di Natale del 1875, con la vittoria degli Hearts con un risultato di misura. Il primo derby di una lunghissima serie, che in gare ufficiali ha superato addirittura i 300 match giocati. In realtà Hearts e Hibernian hanno giocato in totale la bellezza di oltre 600 derby, una cifra ragguardevole, probabilmente inarrivabile. Infatti, alle gare di campionato, di coppa nazionale e di coppa di lega vanno aggiunti i numerosi friendly match, vale a dire le amichevoli, e gli svariati tornei locali che hanno segnato le varie epoche del calcio ad Edimburgo come la East of Scotland Shield, la Rosebery Charity Cup, la Wilson Cup e la Dunedin Cup.  La stracittadina di Edimburgo ha vissuto, comunque, sempre match intensissimi, anche se non sempre per sfide di alta classifica in campionato o per l’assegnazione di una coppa. In una sola occasione il derby era valido per qualcosa di veramente importante. Nel 1896 le due squadre si ritrovarono in finale a contendersi la Coppa di Scozia, con il successo degli Hearts per 3-1, richiamando un pubblico di oltre 17.000 spettatori, una cifra considerevole per l’epoca. Anche se lo stesso derby, il primo nella storia del campionato scozzese, giusto qualche mese prima, di spettatori ne aveva richiamati 17.500. E’ stata questa nella storia del calcio scozzese l’unica finale dell’ambitissima coppa nazionale a disputarsi fuori dai confini di Glasgow. Il derby di Edimburgo in ogni caso ha sempre registrato il pubblico delle grandi occasioni. Il 2 gennaio del 1950 ad Easter Road, casa degli hibs, si è giocato il derby con il maggior numero di spettatori sugli spalti, ben 65.860. Che rappresentano un record nazionale per i match giocati lontano da Glasgow. John Grant Robertson, invece, nato proprio ad Edimburgo il 2 ottobre del 1964, ha segnato oltre 200 gol in carriera con la maglia degli Hearts e, al di là di una breve e sfortunata parentesi con il Newcastle United, ha sempre giocato con la maglia della squadra della sua città. E’ soprannominato il the hammers of hibs, in pratica il giustiziere degli hibs, in quanto in carriera ha segnato 27 volte nell’Edinburgh Derby, diventandone in primatista assoluto dei gol fatti, in un arco di tempo anche abbastanza lungo tra il 1983 ed il 1998. Lo seguono a pari merito Walker, ancora sul fronte degli Hearts, e Gordon Smith, con la maglia dell’Hibernian, a quota 15 reti. L’Edinburgh Derby probabilmente rappresenta l’essenza del vero calcio scozzese, con l’attaccamento dei suoi tifosi, l’attesa per il match ed il grande rispetto delle tradizioni, che a queste latitudini vogliono significare tutto o quasi. Il derby della capitale rimane comunque un derby sostanzialmente corretto, senza incidenti, con grande rivalità ma anche grande rispetto. L’Hibernian si esibisce ad Easter Road, gli Hearts of Midlothian a Tynecastle. I loro palmarès non sono ricchissimi, anche se in Scozia a vincere sono quasi sempre in tutte le competizioni i Rangers ed il Celtic. Gli Hearts hanno vinto nella loro storia 4 titoli nazionali, 4 FA Cup e 4 Coppe di Lega. L’Hibernian, invece, ha vinto 4 volte il campionato, 4 la Coppa di Scozia e 2 la Coppa di Lega. Numerose anche le partecipazioni alle coppe europee, senza risultati di rilievo purtroppo. Ma l’Edinburgh Derby continua a rimanere un derby bello ed intensissimo. Del resto la tifoseria dell’Hibernian è tra quelle che ha creato i maggiori grattacapi nel Regno Unito a partire dagli Anni Ottanta in poi. Le gesta dei Capital City Service, il maggiore dei gruppi organizzati al seguito degli hibs, sono state raccolte addirittura in due libri diventati un cult per la cultura calcistica scozzese. These Colours Don’t Run e Hibs Boy raccontano delle rivalità dei biancoverdi anche abbastanza diffuse non solo nei confronti dei concittadini dell’Hearts, ma anche al cospetto di Rangers, Aberdeen, Airdrie, Millwall, Leeds, Chelsea fino a  giungere agli scontri nel 2005 contro la tifoseria del Dnipro in ambito internazionale. Il movimento casual ha trovò terreno fertile ad Edinburgo sul fronte dell’Hibernian, un po’ come in tutta la Scozia

Vincenzo Paliotto

Tratto dal libro FOOTBALL FANS  urbone Publishing

Edinburgh Derby, Hearts-Hibernian

Non rappresenterà l’aristocrazia allo stato puro del calcio scozzese, il predominio di Glasgow sulla scena nazionale è a dir poco inarrivabile con il blasone e l’enorme quantità di trofei vinti da Celtic e Rangers, ma l’Edinburgh Derby, la stracittadina della capitale, identifica uno dei momenti più belli dal punto di vista del folklore e dello spettacolo del football nella tradizionale Scozia. Il derby di Edimburgo mette di fronte gli Hearts of Midlothian, fondati nel 1874, e l’Hibernian, nato appena un anno più tardi. Nel dualismo cittadino tra i due storici club si riconosce una rivalità che supera di gran lunga i meri confini calcistici e agonistici. Quelli che sostengono gli Hearts sono, infatti, di fede protestante, mentre i biancoverdi dell’Hibernian sbandierano la fede cattolica. L’Hibernian è stato fondato a Cowgate, un’antica zona della città, da irlandesi, che del resto rievocarono il romanico Hibernia, antico nome d’Irlanda. I colori sociali del club, lo stemma sociale e le tradizioni ricordano l’Irlanda, ma la tifoseria ha allargato i propri affiliati ad altri supporters senza distinzione di razza e di fede religiosa. L’Hibernian è stato il primo club della costa orientale della Scozia a vincere la FA Cup nazionale e sul finire dell’Ottocento superò in una gara amichevole anche i titolatissimi inglesi del Preston North End. Gli Hearts, invece, sono nati anche un anno prima degli hibs e la loro denominazione sociale pare derivare da una danza molto in voga in quel periodo del XIX secolo. I loro colori sociali sono da sempre il bianco ed il rosso scuro, proprio per ricordare in qualche modo il colore dei cuori. Il primo derby nella capitale scozzese si è disputato addirittura nel giorno di Natale del 1875, con la vittoria degli Hearts con un risultato di misura. Il primo derby di una lunghissima serie, che in gare ufficiali ha superato addirittura i 300 match giocati. In realtà Hearts e Hibernian hanno giocato in totale la bellezza di oltre 600 derby, una cifra ragguardevole, probabilmente inarrivabile. Infatti, alle gare di campionato, di coppa nazionale e di coppa di lega vanno aggiunti i numerosi friendly match, vale a dire le amichevoli, e gli svariati tornei locali che hanno segnato le varie epoche del calcio ad Edimburgo come la East of Scotland Shield, la Rosebery Charity Cup, la Wilson Cup e la Dunedin Cup.  La stracittadina di Edimburgo ha vissuto, comunque, sempre match intensissimi, anche se non sempre per sfide di alta classifica in campionato o per l’assegnazione di una coppa. In una sola occasione il derby era valido per qualcosa di veramente importante. Nel 1896 le due squadre si ritrovarono in finale a contendersi la Coppa di Scozia, con il successo degli Hearts per 3-1, richiamando un pubblico di oltre 17.000 spettatori, una cifra considerevole per l’epoca. Anche se lo stesso derby, il primo nella storia del campionato scozzese, giusto qualche mese prima, di spettatori ne aveva richiamati 17.500. E’ stata questa nella storia del calcio scozzese l’unica finale dell’ambitissima coppa nazionale a disputarsi fuori dai confini di Glasgow. Il derby di Edimburgo in ogni caso ha sempre registrato il pubblico delle grandi occasioni. Il 2 gennaio del 1950 ad Easter Road, casa degli hibs, si è giocato il derby con il maggior numero di spettatori sugli spalti, ben 65.860. Che rappresentano un record nazionale per i match giocati lontano da Glasgow. John Grant Robertson, invece, nato proprio ad Edimburgo il 2 ottobre del 1964, ha segnato oltre 200 gol in carriera con la maglia degli Hearts e, al di là di una breve e sfortunata parentesi con il Newcastle United, ha sempre giocato con la maglia della squadra della sua città. E’ soprannominato il the hammers of hibs, in pratica il giustiziere degli hibs, in quanto in carriera ha segnato 27 volte nell’Edinburgh Derby, diventandone in primatista assoluto dei gol fatti, in un arco di tempo anche abbastanza lungo tra il 1983 ed il 1998. Lo seguono a pari merito Walker, ancora sul fronte degli Hearts, e Gordon Smith, con la maglia dell’Hibernian, a quota 15 reti. L’Edinburgh Derby probabilmente rappresenta l’essenza del vero calcio scozzese, con l’attaccamento dei suoi tifosi, l’attesa per il match ed il grande rispetto delle tradizioni, che a queste latitudini vogliono significare tutto o quasi. Il derby della capitale rimane comunque un derby sostanzialmente corretto, senza incidenti, con grande rivalità ma anche grande rispetto. L’Hibernian si esibisce ad Easter Road, gli Hearts of Midlothian a Tynecastle. I loro palmarès non sono ricchissimi, anche se in Scozia a vincere sono quasi sempre in tutte le competizioni i Rangers ed il Celtic. Gli Hearts hanno vinto nella loro storia 4 titoli nazionali, 4 FA Cup e 4 Coppe di Lega. L’Hibernian, invece, ha vinto 4 volte il campionato, 4 la Coppa di Scozia e 2 la Coppa di Lega. Numerose anche le partecipazioni alle coppe europee, senza risultati di rilievo purtroppo. Ma l’Edinburgh Derby continua a rimanere un derby bello ed intensissimo. Del resto la tifoseria dell’Hibernian è tra quelle che ha creato i maggiori grattacapi nel Regno Unito a partire dagli Anni Ottanta in poi. Le gesta dei Capital City Service, il maggiore dei gruppi organizzati al seguito degli hibs, sono state raccolte addirittura in due libri diventati un cult per la cultura calcistica scozzese. These Colours Don’t Run e Hibs Boy raccontano delle rivalità dei biancoverdi anche abbastanza diffuse non solo nei confronti dei concittadini dell’Hearts, ma anche al cospetto di Rangers, Aberdeen, Airdrie, Millwall, Leeds, Chelsea fino a  giungere agli scontri nel 2005 contro la tifoseria del Dnipro in ambito internazionale. Il movimento casual ha trovò terreno fertile ad Edinburgo sul fronte dell’Hibernian, un po’ come in tutta la Scozia.

 

di Vincenzo Paliotto tratto da Football Fans Urbone Publishing

La rivoluzione di Manchester

Oggi l’Fc United of Manchester è sinonimo, in tutto il mondo, di quel calcio alternativo di chi crede che i tifosi ancora possano dire la loro, che i clubs dovrebbero essere gestiti in armonia con la propria comunità e che esistano, soprattutto, cose più importanti dei risultati ottenuti sul rettangolo verde di gioco.

Ma come tutto questo ebbe inizio? La domanda è lecita.

Il rivoluzionario club di Manchester nasce nel 2005 subito dopo l’acquisizione del Manchester United da parte di Glazer e con la conseguente dura presa di posizione dei suoi tifosi. Cosa non nuova in quella città inglese… In passato, infatti, i tifosi dei Red Devils erano riusciti a contrastare, con successo, il tentativo effettuato da Murdoch di acquisire il loro club.

In quei giorni del 2005, in molti di loro esiste la concreta speranza che la stessa cosa si sarebbe potuta ripetere anche nei confronti di Glazer: ma questa volta la loro battaglia è destinata a fallire! Giorno dopo giorno, le cose sembrano precipitare: con l’arrivo del nuovo presidente si registra un consistente aumento dei prezzi dei biglietti e lo stadio viene ridisegnato per favorire l’ingresso dei tifosi occasionali, distruggendo così la leggendaria atmosfera dell’Old Trafford, che in tante occasioni era stata necessaria per vincere partite che sembravano destinate a terminare con un’ignominiosa sconfitta.

I tifosi capiscono che non è possibile trovare una qualsivoglia mediazione con il nuovo presidente e che è arrivato il momento di cercare un modo nuovo per tornare a vivere la loro passione.

Qualcuno di loro ricorda quando, nel lontano 1992, i tifosi del Northampton Town diedero il via ad una vera rivoluzione nel mondo del tifo, affermando che i tifosi, se messi alle strette, devono addirittura condurre una campagna contro il loro stesso club e che, soprattutto, hanno anche il diritto di acquisire una partecipazione al suo interno, per poterlo meglio controllare. Da questo fermento nacquero, nella metà degli anni 2000, i cosiddetti Trust che aiutarono i tifosi nell’acquisire quote azionarie dei loro club preferiti. In molti casi, i loro sforzi furono coronati da un insperato successo e club come l’Exeter City, il Brentford e lo York City videro il controllo di maggioranza gestito dai tifosi stessi.

Ma questo approccio potrebbe andare di pari passo con il successo sportivo?”. Questa era la domanda ricorrente che tanti tifosi si ponevano. Eppure solo pochi anni prima, nel 2002, i tifosi del Wimbledon FC si erano ribellati alla decisione presa del loro club di trasferirsi a Milton Keynes e avevano fondato, seduta stante, l’AFC Wimbledon, che in quel fatidico 2005, in poco tempo era riuscito a farsi strada nelle categorie della non-league, dimostrando che tutto ciò era possibile ed anche auspicabile.

Ispirati da questi esempi, i tifosi del Man Utd decidono di fondare un club di loro proprietà gestito in armonia con i loro desideri. Nel corso di pochi mesi, nella primavera del 2005, un comitato direttivo di quindici persone inizia a reclutare nuovi soci, a sviluppare un business plan, a trovare un posto dove giocare, ad elaborare uno statuto e a presentare una domanda alla FA per ufficializzare il nuovo club che si chiamerà: FC United of Manchester!

In maniera molto rapida, i tifosi riescono a raccogliere 180.000 sterline da circa 3.000 soci, un risultato che, di gran lunga, supera le loro aspettative più rosee. Qualcuno fa un grande investimento, ma la maggior parte dei tifosi acquista solo piccole quote.

La prima partita del club, un’amichevole a Leigh, si gioca a metà luglio. Sotto la guida di Karl Marginson, l’FC United di fronte a 2.500 tifosi ottiene un buon pareggio. La partita si conclude con una festosa invasione di campo (proibita all’Old Trafford) e i giocatori sono trasportati fuori dal terreno di gioco sulle spalle dei loro tifosi.

Dopo un’incredibile serie di promozioni durante i primi campionati, oggi l’FC United gioca nella National League North.  Ma il successo sul campo non è la sola cosa importante nella storia di questo rivoluzionario club, perché per molti dei suoi tifosi, tanto importante quanto le vittorie ottenute sul campo è il modo in cui sono gestite le cose.

L’FC United of Manchester non è la visione di un solo uomo ma, piuttosto, un veicolo per le speranze e i sogni dei tifosi, che hanno voce in capitolo. L’FC United è, soprattutto, un club della comunità perché non vende solo biglietti a prezzi contenuti, ma è anche pesantemente coinvolto nel mondo del lavoro, aiutando le persone svantaggiate della città, attraverso varie modalità.

Tanti anni fa, i club di calcio erano gestiti in sintonia con la tifoseria: ecco cosa stanno facendo i rivoluzionari di Manchester, stanno semplicemente riportando il calcio alle sue radici!

Per aiutarci a capire meglio la portata di questa storica rivoluzione calcistica, ecco le parole di Rick Simpson, uno dei primi fondatori del FC United of Manchester

 

– Come è nata l’idea di fondare l’FC United of Manchester?

Il 12 maggio 2005 la famiglia Glazer ha preso il controllo finanziario del MUFC, purtroppo si è trattato solo di un “leverage buy-out”, dato che il denaro per acquistare il club era stato preso in prestito in maniera tale che poi l’indebitamento fosse pagato dal club stesso. Poco a poco, io ed altri 1.000 tifosi della vecchia guardia, persone con la stessa voglia di cambiare, abbiamo iniziato ad alzare la voce contro questa acquisizione. Sulla scia della nostra protesta, molti tifosi, tra cui anche coloro gestivano la fanzine Red Issue, hanno pensato che l’unico modo positivo per reagire, era quello di creare un nuovo club di proprietà dei tifosi, dove ogni socio ha diritto di esprimere il suo voto a prescindere da quanto versa per divenire suo socio.

 

– Quanti tifosi vi hanno seguito fin dai primi giorni?

La prima stagione è stata un po’ “pazza” perché inizialmente molti tifosi dello United sono venuti al campo, soltanto per dare uno sguardo ma noi abbiamo cercato di coinvolgerli ricreando l’atmosfera che si respirava all’interno dello stadio nel 1970. Nel primo anno abbiamo ottenuto una media di circa 3.000 spettatori.

 

– I tifosi dello FC United non hanno amato Glazer, ci puoi spiegare il perché?

E’ vero che abbiamo continuato a vincere trofei …. Ma i prezzi dei biglietti sono aumentati del 50%, ed il costo medio di un abbonamento è aumentato di quasi 1.000 sterline, questo significa che molti vecchi tifosi della classe media, ormai, possono solo guardare le partite in un pub! I proprietari sanno che per mantenere lo stadio pieno devono almeno qualificarsi per la Champions League, in questa maniera 30.000 nuovi tifosi hanno sostituito quelli che non vanno più allo stadio, ma questi “nuovi” tifosi continuano a rimanere fedeli solo se ci si qualifica per la Champions League! I Glazer hanno una sola motivazione: guadagnare soldi e non si preoccupano se i vecchi tifosi ormai non possono più permettersi di sostenere il loro club.

 

– Quali sono le differenze tra una partita del Man Utd partita e un dello FC United?

Prima di tutto sono scomparsi, dal 1992, i settori in piedi nello stadio dello United, scomparsi in un sol colpo! Anche se al secondo anello della Stretford End c’è ancora un settore in piedi, a volte siamo buttati fuori dalla sicurezza per questo “crimine”. Nello stadio dell’FC United of Manchester, l’80 % dello stadio canta ad alta voce le vecchie canzoni del Man United insieme con quelle del nostro nuovo repertorio, un’atmosfera ben diversa!

 

– Come è cambiata l’atmosfera all’interno di uno stadio inglese dal ’70?

Il cambiamento è stato enorme! Se un tifoso venisse catapultato ai nostri giorni dal 1970, o dagli ’80 si sentirebbe … male. Ho amato la passione ed un pò di pericolo, allora ero giovane e stupido. Allo stadio del FC United ricreiamo la vecchia passione intonando i vecchi cori, ma senza la violenza di allora. Ora andare ad una partita di calcio in trasferta per i tifosi è quasi come visitare un teatro! Alla classe media, così come ai proprietari e alle autorità piace guadagnare tanti soldi senza avere problemi. Credo che, a volte, sia bello andare da qualche parte in trasferta e cantare per 90 minuti, cantare e urlare come un adolescente demente: la terra può essere un posto frustrante, ma mi sento meglio quando assisto ad una partita e posso usare la mia voce per strillare e cantare, cosa che non posso fare dove, ormai, si riesce a malapena a parlare!

 

– Il calcio moderno è fatto di prezzi elevati e di calcio televisivo, pensi che i tifosi possano cambiare questa tendenza in futuro? Lo stadio può tornare come in passato?

Tutto è nelle mani dei tifosi, italiani, inglesi, tedeschi, scandinavi etc. etc. che devono essere in grado di comunicare tra di loro senza la faziosità che li ha sempre divisi, cercando di costruire dei club di proprietà dei tifosi in ogni paese. Solo in questo modo sarà possibile cambiare davvero le cose … ma l’apatia … è una forza distruttiva! E’ stata davvero una decisione difficile per me e per gli altri 2-3.000 tifosi dello United allontanarsi dalla nostra “fede”, non vado all’Old Trafford dal 2005. Speriamo di poter vedere altri tifosi che avranno il coraggio di andare via e di ricreare un nuovo club solo per un principio, credo che possa accadere ancora ed accadrà …….. ma io sono un ottimista nato!

 

– Steve Evets l’attore protagonista del film: “Il mio amico Eric” interpreta il ruolo di un tifoso dello Fc, United, ci puoi dire qualcosa su di lui?

Steve è esattamente come il personaggio che interpreta: lui viene ancora nel bar gestito dai volontari, tra cui ci sono anch’io, prima di ogni partita per prendersi una birra, si fa una chiacchierata e poi sale sulle gradinate per sostenere i ragazzi. Un bravo ragazzo!

 

– Oggi l’Fc united ha costruito un nuovo stadio, un grande traguardo raggiunto.

Il Broadhurst Park, che deve il suo nome dal parco in cui si trova lo stadio, è stato inaugurato alla fine di maggio del 2015 e ha una capienza tra i 4.500-5.000 tifosi, la maggioranza in piedi e 800 seduti. E’ stato un lungo percorso con molti ostacoli, che abbiamo superato, sia finanziari, burocratici che logistici, ma grazie alla nostra caparbietà ora abbiamo un posto che possiamo chiamare casa.

In realtà, con sei milioni di sterline si sono completati due settori dello stadio mentre gli altri due lati necessitano ancora di lavori di completamento, ma la cosa più importante è che siamo riusciti ad inaugurare il nostro stadio ed ora possiamo affrontare tutte le sfide che si hanno quando si possiede una squadra di calcio e uno stadio.

La nostra organizzazione è ancora relativamente giovane e, naturalmente, non ancora perfetta, abbiamo una dirigenza eletta da 5.000 soci e noi ci dobbiamo preoccupare di controllare che mantengano il club autosufficiente finanziariamente e in linea con i suoi principi fondanti.

 

– L’amichevole contro il Benfica, un altro sogno realizzato.

Sì, è stata una grande notte, che noi tutti ricorderemo per molti anni. Abbiamo incontrato una squadra che noi tifosi più anziani ricordiamo fin dal 29 maggio del 1968, quando il nostro amato Manchester United, sconfiggendoli, vinse per la prima volta la Coppa dei Campioni. Anche se, naturalmente, i portoghesi hanno mandato giovani e riserve resta, sempre, una squadra ricca di storia e siamo stati molto onorati che abbiano deciso di partecipare alla nostra partita inaugurale.

 

– I tuoi progetti futuri?

Per quanto riguarda l’FC United continuerò a sottoscrivere il mio abbonamento stagionale e continuerò ad andare allo stadio insieme a Tom il mio figlio più giovane, che compirà 16 anni la prossima settimana. E’ un’enorme gioia poter condividere le emozioni, insieme, sia nella vittoria che nella sconfitta. Lui sta portando anche i suoi compagni di scuola, perché è consapevole che abbiamo bisogno di costruire la prossima generazione di tifosi. L’FC è quasi una scuola di formazione per entrambi i Manchester, per questo cantiamo le canzoni dei due club ad ogni partita. Più tifosi continueranno a seguire i due Manchester, il big United e il little United, più la leggenda continuerà.

Ho scritto un libro intitolato “Divided-Re United, è una storia che non parla di calciatori, ma dei tifosi che hanno seguito lo United, per un periodo di cinquant’anni dal 1966 al 2016. L’ho inviato ad alcuni editori, senza successo, e quindi non escludo che lo pubblicherò attraverso una piattaforma on-line. Continuo ad aiutare mia moglie nell’ altra grande passione della nostra vita che è quella di poter essere di aiuto non solo ai nostri figli ma anche a tante altre famiglie attraverso un’associazione che abbiamo creato nel 2005: http://www.space4autism.com

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Giorgio Acerbis tratto da Uk football stories  n.2